Che Al Baghdadi sia vivo o morto, la notizia vera è che la situazione
nel teatro di guerra in Siria e Iraq è in evoluzione positiva. L'Isis
arretra, Mosul è praticamente libera, Raqqa assediata e il vertice del
Califfato asserragliato. L'analisi del senatore Giacomo Stucchi (Lega),
che presiede il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti e
ha quindi uno sguardo dall'interno dell'intelligence è questa. Ma
mentre la fine della guerra si avvicina, all'orizzonte si affaccia la
minaccia dei Foreign Fighters sconfitti. Alcuni già rientrati, altri
sulla via del ritorno (meno di 10 gli italiani tornati in Europa, tutti
marcati a vista). Cominciamo da Al Baghdadi. Vivo o morto?"Non abbiamo nessuna conferma. Ad oggi, per noi è una notizia non verificata". Il fatto che siano stati i russi a darla, ha un significato politico preciso. "La Russia vuole dimostrare di essere il player protagonista di questa caccia all'uomo più pericoloso". Non può essere un modo per stanarlo o costringere Isis a confermare o smentire? "Mi
sembrerebbe una strategia troppo elementare. Piuttosto, diciamo che si
tratta di una informazione che riguarda operazioni effettivamente
compiute in un luogo nel quale si riteneva molto plausibile la presenza
di Al Baghdadi. Il punto è che se ci sono state 70 o 100 vittime su un
numero doppio di presenti, occorre una accurata verifica a posteriori.
Il che richiederà un lavoro di humint, di intervento diretto sul campo molto lungo e pericoloso". Queste informazioni arrivano alla nostra intelligence? "Quando sono riservate ma attendibili, certo che arrivano. Poi capita di leggerle anche sui giornali, ma qualche tempo dopo". In questo caso? "Ci arriveranno certamente quando ne sarà verificata almeno la possibilità concreta". Proviamo
a fare una fotografia della situazione nel teatro di guerra, con un
occhio a Mosul dove c'è anche il contingente italiano a presidiare la
diga. "Ormai la presenza di Isis in città è molto
limitata, ma non meno pericolosa. Col rompete le righe, quelli che
scappano possono compiere ovunque azioni individuali. Teniamo conto che
quando Isis abbandona un'area, si lascia dietro strade minate, ordigni
piazzati con trappole, insomma uno scenario che comporta rischi da
calcolare e disinnescare. E comunque Mosul è importante soprattutto per
la diga, che è una garanzia di sopravvivenza per tutta quell'area". Il contingente italiano è in una condizione che si può definire sicura? "A
quanto mi risulta sono state prese da sempre tutte le precauzioni
necessarie. Il fatto che ad oggi non sia accaduto nulla, testimonia che
sono precauzioni che stanno funzionando". Isis sta perdendo terreno anche intorno alla sua roccaforte in Siria. "Beh,
è un fatto che Raqqa non sia più quella di tre anni fa. Anche se con la
progressiva perdita di territorio, lì si sono concentrati i più strenui
difensori dello Stato islamico e dei suoi interessi economici, politici
e religiosi". Possiamo
dire che, anche se non in tempi brevissimi, ci stiamo avvicinando ad un
esito della guerra che vedrà il Califfato sconfitto? "Siamo
in una fase che sta portando alla liberazione di tante zone che erano
sotto lo stretto controllo di Isis. Non dobbiamo ragionare in termini di
uno o due mesi, ma nemmeno pensare ad un tempo molto lungo". Il problema poi sarà quello dei trentamila foreign fighters. "Sì,
sarà proprio quello. Cosa faranno gli stranieri che sono lì a
combattere per Isis. Torneranno a casa? Cercheranno nuovi orizzonti? O
abbandoneranno la strada percorsa, consapevoli di aver commesso un
errore? Questa è la sfida che ci troveremo a giocare anche in
Occidente". Quali segnali ha l'intelligence su spostamenti di combattenti già in corso, magari verso paesi come la Libia? "No,
la Libia ha altri problemi. In questo momento i cosiddetti returnees,
preso atto che la sconfitta è imminente, stanno cercando di rientrare
nei rispettivi paesi occidentali. Ma per adesso non parliamo di un
numero molto elevato. Anche perché sanno benissimo che nei loro paesi
d'origine verrebbero tutti arrestati". E i nostri foreign fighters, sono ancora tutti tra Siria e Iraq, stanno rientrando o sono già qui? "Tranne
quelli deceduti, la stragrande maggioranza è ancora in zona. Però nei
nostri elenchi non ci sono solo foreign fighters italiani ma anche
cittadini stranieri che hanno vissuto nel nostro paese o sono partiti da
qui. Alcuni hanno cercato di rientrare diciamo in Europa, senza entrare
nel dettaglio". È vero che sono meno di dieci? "Sono un numero che permette a noi e agli altri paesi europei di tenerli sotto stretto controllo".Parliamo
della Gran Bretagna. Dopo la serie dei tre attentati – Londra,
Manchester, Londra – l'intelligence britannica ha capito che non può
fare da sola o no? "Hanno
capito che lo scambio di informazioni è essenziale. E ora è
elevatissimo. Il problema è il rapporto tra la quantità di informazioni e
il personale specializzato a disposizione. In una situazione così
complessa, con una tale massa di notizie, diventa tutto più difficile.
Ma non è fondamentale solo lo scambio di informazioni. Quello che devono
capire è che poi deve esserci un'analisi reale, perché tralasciare il
minimo dettaglio abbiamo visto a quali conseguenze può portare". Come con Youssef Zaghba, l'italo-marocchino del commando del London Bridge. "In
quel caso, l'informazione correttamente passata dai nostri servizi, ha
comportato un gesto drammatico compiuto un bel po' di mesi dopo. Quindi,
da questo punto di vista diciamo che è necessario scambiare le
informazioni ma anche dargli costantemente seguito in termini di
verifica. Non basta fare un controllo e dire che è uno dei tanti che
parla e basta". Certo, la storica efficienza dei servizi britannici, francesi e tedeschi esce parecchio ridimensionata. "Senza
voler sminuire gli errori, loro hanno anche una concentrazione di
potenziali terroristi che non abbiamo noi. Per quanto ci riguarda, fino
adesso abbiamo saputo leggere molto bene il paese e le situazioni
problematiche. Anticipandole invece di subirne le conseguenze".
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