“La normativa prevista dal decreto Monti del 2013 è
da rivedere completamente e forse serve un nuovo decreto che lo
sostituisca. Quattro anni di sviluppo tecnologico sul fronte della cyber
security equivalgono a 50 anni nel mondo reale”. Giacomo Stucchi,
48 anni tra un mese, leghista e presidente del Copasir, il comitato di
controllo sui servizi segreti, aspetta le notizie dagli Stati Uniti
prima di esprimere un giudizio approfondito sull’inchiesta che il 10
gennaio ha portato all’arresto dei fratelli Occhionero, accusati di
spiare migliaia di soggetti, tra cui ex presidenti del Consiglio come Matteo Renzi
e Mario Monti e istituzioni. Quell’inchiesta, però, ha rilanciato la
discussione sul sistema di sicurezza informatica in Italia, che ebbe una
prima organica normativa con un decreto del presidente del Consiglio,
nel 2013 appunto Mario Monti. A Formiche.net Stucchi spiega la
situazione e anticipa il possibile nuovo percorso “perché, se anche
finora non abbiamo preso nessun gol, gli attaccanti avversari migliorano
sempre la loro performance”. Presidente Stucchi, al Copasir è in corso da mesi un’indagine
sulla sicurezza informatica (di cui il vicepresidente, Giuseppe
Esposito, è proponente e relatore assieme ad Angelo Tofalo). La vicenda
Occhionero influenzerà i vostri lavori? Ci stimola a individuare altri soggetti da audire. Nel frattempo,
entro fine mese visiteremo la struttura della nostra intelligence
deputata alla cyber defence per valutarne direttamente il funzionamento e
il livello di organizzazione e di difesa, come abbiamo già fatto in
passato con altre strutture. E’ una sfida continua e le persone preposte
sono qualificate, capaci e pronte ad affrontare gli attacchi che
possono arrivare da hacker strutturati o indirizzati da governi
stranieri. Si lamenta una mancanza di coordinamento, eppure nel decreto
Monti è previsto un organismo collegiale di coordinamento che supporta
il Cisr (Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica) e
che è presieduto dal direttore del Dis. Non funziona? Credo che l’impianto previsto dal decreto sia superato e nella
sostanza abbia prodotto poco. E’ necessario rivedere completamente il
tutto e sostituirlo, riscrivendo il decreto alla luce delle necessità
emerse negli ultimi tempi. I quattro anni trascorsi dal gennaio 2013 a
oggi equivalgono a un’era geologica in termini informatici, sono come 50
anni del mondo reale. Dunque vanno riviste anche le competenze che oggi sono del consigliere militare del presidente del Consiglio? Va rivisto tutto. In un convegno del settembre scorso il prefetto Alessandro
Pansa, direttore del Dis, parlò della necessità di un progetto nazionale
di cyber security. E’ a questo che state pensando? Il concetto è che vanno definite nuove procedure che disciplinino una
serie di rapporti tra pubblico e privato le quali, se sommate,
rappresenterebbero la spina dorsale della nostra sicurezza cibernetica.
Pubblico e privato insieme significa ministeri e strutture della
pubblica amministrazione, grandi aziende e ricerca universitaria. Finora com’è andata la collaborazione pubblico-privato? Se si deciderà di modificare il decreto Monti per quanto riguarda
questo aspetto sarà proprio per aver constatato che qualcosa non ha
funzionato o è partito solo a livello embrionale. Bisogna prenderne atto
e cambiare indirizzo. I soldi a disposizione: dei 150 milioni stanziati con la
legge di Bilancio 2016 per la cyber security dopo gli attentati di
Parigi, 15 andarono alla Polizia postale e 135 sono ora a disposizione
dei Servizi grazie a un decreto del 6 settembre scorso, come confermò
l’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Angelo Tofalo, membro del Copasir per il Movimento 5 Stelle, a Formiche.net ha parlato della necessità di 2 miliardi. Bisogna distinguere bene. I soldi della legge di Bilancio 2016 sono
spendibili dal 1° gennaio di quest’anno, ma ci si era già mossi prima di
averne la materiale disponibilità e permettono all’intelligence di fare
cose positive. Se invece parliamo di piano nazionale per la cyber
security dobbiamo comprendere tutti gli attori e ognuno deve contribuire
per la propria parte. Se un’azienda privata decide di far parte del
piano non può pensare di avere una serie di benefici senza contribuire
anche economicamente. Che tempi prevede per la nuova normativa cyber? Ce la fate in questa legislatura? Per una struttura come quella attuale i tempi di adeguamento
potrebbero essere lunghi soprattutto se si dovesse utilizzare una legge
ordinaria; invece se la struttura fosse diversa, non ingessata, agile,
attuabile anche con norme di rango inferiore, i tempi potrebbero essere
brevi. Mi auguro che dal governo arrivi una proposta rapida per riuscire
a definire il tutto in pochi mesi. Le intenzioni sono bipartisan? Sulla necessità di attualizzare la normativa sulla cyber security
siamo tutti d’accordo, poi bisognerà vedere il contenuto della proposta. In un’intervista a Panorama all’inizio del 2013 l’allora
direttore del Dis, Giampiero Massolo, disse che l’anno precedente
un’azienda italiana aveva subito mille attacchi cyber al giorno e solo
quando si rese conto di non farcela chiese aiuto all’intelligence. Si
possono quantificare gli attacchi che aziende private e istituzioni
subiscono? Più un’azienda è grande, più attacchi subisce. Inoltre, ci sono
aziende di nicchia che hanno minore capitalizzazione rispetto ai grandi
gruppi, ma che detengono informazioni preziose e sono a loro volta
oggetto di innumerevoli tentativi quotidiani, dall’hacker singolo a
quello governativo. Gli attacchi sempre più numerosi ci preoccupano e
con l’evoluzione tecnologica è sempre più difficile per un portiere non
prendere gol. Finora non abbiamo subito nessun gol, ma gli attaccanti
hanno performance sempre maggiori, per esempio concentrando una serie di
indirizzi Ip su un unico obiettivo creando un fronte di fuoco difficile
da sopportare. Un’azienda “sensibile” riesce a difendersi? Chi è in difficoltà sa che può chiedere un supporto. Le aziende più
importanti sono strutturate in modo adeguato, altre hanno bisogno di
perfezionarsi sulla difesa. Tutte si adeguano tecnologicamente, in
alcuni casi forse non c’è la consapevolezza di dover fare uno sforzo in
più. Non bisogna dimenticare che quel tipo di investimento è molto
costoso. C’è bisogno anche di una maggiore collaborazione tra le strutture operative, cioè tra Difesa, Polizia, Servizi? E’ necessaria anche se sono quotidianamente impegnate in un lavoro comune e dunque un collegamento costante tra loro c’è. Che idea si è fatto dell’inchiesta Occhionero? Finché non avremo i dati dagli Stati Uniti, dove sono basati alcuni
server, non riusciremo a capire il reale perimetro della vicenda e ci
vorrà del tempo. Si è parlato di 18 mila account, ma ci sono soggetti
con più email e dunque il numero reale delle persone coinvolte è
inferiore. Le intenzioni sono una cosa, i risultati un’altra. Sul fatto
poi che agissero di propria iniziativa o per conto di qualcuno, per ora
posso solo rilevare che il malware usato era vecchissimo, tanto che
neanche gli antivirus più moderni riescono a intercettarlo. Come Copasir
aumenteremo la frequenza delle audizioni: esauriti i soggetti
istituzionali, stiamo ascoltando i professori esperti del settore e poi
toccherà ai privati. Non dimentichiamo, però, che il Comitato non
dev’essere mai monotematico: un’emergenza cyber non può farci
dimenticare il terrorismo o la criminalità organizzata.
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